La fioraia e l’assessora
25 Nov 2020
Colloquio con la giudice Paola Nicola Travaglini
Le donne stanno emergendo nella vita sociale e professionale, i loro ruoli e le loro posizioni sono in ascesa. Un cambiamento che, però, non avviene in maniera estesa e uniforme. La lingua italiana riflette condizionamenti radicati che si esprimono anche nell’assegnazione consuetudinaria di una falsa neutralità o equidistanza a termini maschili riguardanti, in particolar modo, le professioni.
Vi è la necessità di riportare alla luce le parole mancanti, e arricchire il vocabolario restituendogli ciò che la grammatica possiede di per sé, nascosto agli occhi di chi non vuol vedere: “sindaca” e “assessora”, ad esempio, non fanno ancora parte della lingua corrente e troppo spesso inducono ancora alla battuta. Però non è un problema se esistono “fioraia” e “cassiera”, che indicano professioni rispettabilissime ma lontane dalla gestione del potere. “Cameriera” sì, ma “ingegnera” e “architetta” no.
Qui puoi leggere il mio contributo per Treccani.it
La questione dell’uso dei termini di genere grammaticale femminile che indicano una professione o un ruolo istituzionale, al posto di quelli maschili, è evidentemente una faccenda che rimane ancora del tutto aperta. E che in Italia vede ancora troppe resistenze culturali e sociali: nulla, in realtà, che abbia a che fare con la linguistica. Non vi sono infatti regole grammaticali che impediscano di cambiare una -o in una –a, quando si ha a che fare con i ruoli svolti da donne. Vi è però sia un uso poco consapevole del genere grammaticale sia una resistenza culturale profonda.
Pensiamoci un attimo. E chiediamo ad un bambino, la cui mente certo meno ingombra di pregiudizi, di identificare la mamma che svolge il lavoro di magistrato: non avrà nessun problema a dire “la giudice”! Così come un altro direbbe “la maestra”! Ma pensiamo anche alla parola “governante” che al maschile significa ‘chi ha un ruolo di governo’ e al femminile ‘chi tiene in ordine una casa’. Tutto quello che è femminile è sminuente e sminuito e quello che è maschile è valorizzante e valorizzato.
La giudice penale Paola Di Nicola Travaglini (nella foto sopra) affronta la questione del disassamento linguistico e socioculturale all’interno delle aule dei tribunali, scrivendo libri e intervenendo in pubblico per aprire gli occhi a uomini e donne, affinché siano parte attiva del cambiamento. La magistrata ne ha parlato attraverso un vocabolario limpido e alla portata di tutti in due pubblicazioni. La prima, più recente, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio (HarperCollins 2018). La seconda è La giudice. Una donna in magistratura (Ghena 2012), un’occasione per riflettere su questa rivoluzione “silenziosa” che si fa largo tra mille difficoltà e resistenze.
Oggigiorno sono tante le emergenze, sanitaria innanzitutto, poi economica ed ambientalista, che ripongono la questione di genere nel linguaggio in fondo alla lista delle priorità dell’educazione culturale e civile. Come dire, due passi avanti e dieci indietro. Tanto che nel 2020 persino il correttore automatico di Word ha bisogno di essere corretto ogni volta che scriviamo la “sindaca”.
In questo contesto, è un bene che la raccolta di firme ideata e promossa da Maria Beatrice Giovanardi, firmata da 35.000 persone in tutto il mondo, abbia portato l’Oxford Dictionary a cambiare la definizione di donna e le definizioni di altre voci collegate, in modo da renderla meno sessista e più inclusiva.
Abbiamo voluto capire con Paola Di Nicola Travaglini qual è secondo lei il nodo cruciale del rapporto tra lingua italiana e questioni di genere. Ecco le sue risposte.
«Il contesto culturale e sociale non è ancora pronto. Forse non è mai stato pronto a cambiare. Periodicamente si parla di parità di genere attraverso il linguaggio, si scrivono libri, se ne parla in tv e sui giornali, poi tutto viene rimandato indietro e le questioni linguistiche sono rimpiazzate da aspetti più contingenti. Ancora oggi in Magistratura, che è il settore che io conosco meglio e per il quale posso parlare direttamente, il femminile non esiste nella declinazione dei nostri ruoli istituzionali. Il 95% delle donne continua a firmarsi al maschile “il magistrato”, anziché “la magistrata”, “il giudice” anziché “la giudice”. Eppure le funzioni oramai sono date per assodate, perché è dal 1963 che le donne hanno accesso alla Magistratura, sono quasi più degli uomini, ma non ancora negli incarichi di rilievo».
Con la sua attività di magistrata, Paola Di Nicola ha deciso di affrontare il problema dalle aule del tribunale, facendo emergere stereotipi e frasi che si utilizzano frequentemente nei casi di violenza a danno delle donne, trasformando la vittima in presunta colpevole. Tali pregiudizi, che la nostra società ha interiorizzato, non appartengono, però, solamente, alle aule dei tribunali.
In che modo la lingua italiana manifesta il pregiudizio nei confronti delle donne?
«La lingua è uno strumento di potere che rappresenta i rapporti di forza culturali e sociali, perché nomina chi può e deve esistere. Pensiamo al maschile plurale che include il femminile e al femminile che non include nulla di diverso da sé. Non è questione grammaticale, come troppo spesso siamo portati a pensare, è una regola fissata per rispettare un rapporto di potere e renderlo assoluto ed immobile. Ce lo insegnano importanti linguiste come la professoressa Cecilia Robustelli che lavora su questo da anni sottolineando il concetto di “svalutazione di genere”. Ci sono tantissimi esempi a supporto, di cui parlo nei miei libri. Ognuno di noi può spezzare il meccanismo utilizzando la lingua in modo corretto a partire dal servirsi del femminile quando sono le donne a ricoprire incarichi di grande responsabilità, anche accettando quella che molti ritengono, per mero alibi, una cacofonia che, guarda caso, non riguarda mai ruoli sociali esecutivi».
Il Tribunale non è un luogo separato dalla realtà culturale e sociale in cui opera ma, attraverso parole e sentenze, dovrebbe esserne una rappresentazione. Come mai è così difficile abbandonare le vecchie abitudini?
«Spetta alle donne decidere. Se è vero che la violenza di genere vede responsabilità esclusivamente maschili, quella del linguaggio di genere ha un’importante componente femminile. Siamo noi donne che per prime non ci riconosciamo nella ricchezza e nel potere al femminile, che in realtà la lingua italiana riconosce. Le regole grammaticali impongono di mettere una -a al posto di una -o, ma noi non lo facciamo. È una questione soprattutto culturale che ci vuole nascoste dietro al maschile,e che ci impedisce di accettare la paritaria distinzione tra i due generi. Chi utilizza il femminile ed applica le regole della grammatica italiana paradossalmente viene etichettata come “contestatrice anti-sistema”: nasce dunque la paura di essere ritenute diverse e di essere emarginate. Ed anche per paura di prenderci quello che ci è dovuto. Molte colleghe, anche nel mio ambito professionale, credono che il firmarsi al maschile sia una presa di potere. Firmarsi “il magistrato”, in realtà, è una svalutazione del proprio ruolo e prima ancora del proprio genere, escluso dall’interpretazione solo in forza di pregiudizi e stereotipi».
Com’è percepita la questione negli altri Paesi?
«Molto spesso il problema non si pone: Gran Bretagna, Francia Spagna e persino Brasile considerano come normale la parità nei termini linguistici tra uomini e donne, anche in contesti professionali di spicco. E non solo perché le lingue sono differenti. È la cultura sociale ad esserlo. Ho avuto modo di affrontare questi temi, in passato, alla Scuola Superiore di Magistratura in Brasile. Mi creda se le dico che i medesimi colleghi si stupivano del perché, in Italia, la questione di firmarsi “la giudice” fosse un problema. Nel nostro Paese il sessismo, non solo linguistico, ha radici profonde che tornano indietro quasi alla notte dei tempi. Se pensiamo che tra le vicende più antiche della storia di Roma, avvolta dalla leggenda, c’è anche il Ratto delle Sabine, cioè uno stupro di guerra, possiamo ben capire quanto sia vacillante il sacrosanto principio della parità tra uomo e donna».
Nessuno vuole grandi proclami: in questo specifico settore morfologico e lessicale basterebbero piccoli accorgimenti; ma come conseguenza di un indirizzo certo e lineare, che le risorse combinatorie della grammatica offrono. In questo contesto le istituzioni pubbliche, il mondo dei media, la scuola e l’università, le donne stesse hanno la responsabilità di promuovere l’educazione alla parità di genere, anche attraverso un uso corretto e intelligente della lingua italiana.
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